Che cosa sappiamo della realtà? La realtà dell’esperienza ci è nota: conosciamo fatti, eventi, cause, luoghi, individui. Ma nel cuore dell’esperienza è nascosta una trama simbolica: la realtà reale. Nel corso dell’Ottocento, mentre grazie alla rivoluzione industriale la tecnica si affermava come lo strumento principe per la conoscenza e il dominio del mondo, i romanzieri – da Balzac a Flaubert – tentarono di rappresentare scientificamente la realtà dell’esperienza; ma nel passaggio al Novecento ci si accorse che il realismo non riusciva a soddisfare il bisogno di senso, che l’esperienza risultava frammentata e dispersa, che la realtà reale sfuggiva alla presa. Joyce, Proust, Döblin, Mann, Broch, Musil, Hesse, Canetti e altri tentarono un romanzo nuovo, vorace, spirituale, strabordante dalle forme canoniche. “Lo splendore” di Pier Paolo Di Mino si colloca in questa tradizione modernista; ma ficca le sue radici molto più nel profondo, nelle grandi narrazioni bibliche e prebibliche, nella sapienza cabalistica e alchemica – il titolo è un omaggio allo “Zohar” –, nel romanzo comico e parodistico di Cervantes e Sterne. E al tempo stesso è una rocambolesca e talvolta granguignolesca epopea popolare, avvincente come un romanzo di Dumas. “Lo splendore. L’infanzia di Hans” racconta l’infanzia di Hans Doré, nato nel 1911 in un sobborgo di Berlino e destinato a diventare il «vero re», colui che – senza saperlo – potrà salvare il mondo dalla macchina della necessità; ma è soprattutto il racconto della sua genealogia diretta e indiretta, nella quale si affollano personaggi memorabili – la curatrice ambulante Hermine, la piissima Clea, il brutale Gustav, il fervente socialista Joseph –, ciascuno con il proprio compito all’interno della sottile trama che regge le sorti dell’umanità. Le loro vite sono contese da due fazioni contrapposte, che sembrano muoversi con agilità nello spazio e nel tempo: da una parte l’abeliano Hubel e il cainita Ginzburg, dall’altra il prete Kircher e un misterioso libraio. Saranno questi ultimi che, per mezzo di un visionario libro azzurro fatto di sole immagini, tenteranno di guidare Hermine, Clea, Gustav, Joseph e lo stesso Hans verso lo splendore.
Proposto da Saverio Simonelli al Premio Strega 2025 con la seguente motivazione:
«Sono tre le parole chiave per accedere al mondo di Lo splendore. L’infanzia di Hans, romanzo di Pier Paolo Di Mino. La prima parola è “arazzo”: non affresco, perché anche l’arazzo lo vedi steso su una parete, eppure quei colori sono meno orgogliosi di sé, ma misteriosamente e vicendevolmente dipendenti. Basta guardarlo da dietro un arazzo per scoprire un intreccio di fili che li collegano quei colori: ogni legame è indispensabile per la tenuta del tutto. E così è nel romanzo di Di Mino, pervaso dall’idea del legame tra creature dove ogni parola, ogni gesto è decisivo anche per chi si trova a centinaia di pagine di distanza. I personaggi emergono sulla scala del tempo: troviamo Rosa, madre di Hans, ingenua e spirituale; Hermine, donna selvatica e guaritrice; Joseph, candido socialista utopista, ma tutti compiono azioni che si riverbereranno sulla vita di questo bambino destinato a qualcosa di grande, benché nulla lasci presagire un tale destino. La trama della storia è quindi un insieme di relazioni, per cui ogni personaggio che partecipa al destino di Hans è in sé un romanzo e una porta inconsapevole verso altro, come nella figura demoniaca di Gustav, che nella sua perversa malvagità concorre comunque al bene. La seconda parola è “ritmo”: perché colpisce alla luce di una prosa così raffinata e di un lessico di rara appropriatezza, l’andatura da narrativa popolare. Di Mino sa indossare alla perfezione i panni del cantastorie lasciando rotolare eventi e situazioni sulle pagine per il gusto sia del racconto sia del suono: storia e ritmo, infatti, concorrono all’idea di un testo che costruisce un mondo che ha un senso perché come ricorda Seamus Heaney in uno dei suoi saggi di Oxford, quando una rima o una semplice giustapposizione tra parole suona bene, il poeta è già dalla parte della vita ed è contro la morte. La terza è “rinascimento”: anche se guardando agli avvenimenti e alla trama l’accostamento parrebbe azzardato. E invece, ambientato tra fine Ottocento e inizio Novecento, il romanzo prescinde dai tormenti dell’epoca, né guarda nostalgicamente a qualche “mondo di ieri” per costruire invece una realtà come segno, come via, fisica e spirituale assieme, verso un altrove. Ecco perché ogni situazione e ogni personaggio sono circondati da un’aura fatale, mai nulla è irrilevante e i simboli sono incarnati. Se è vero che il romanzo può essere letto come un arazzo di combinazioni inavvertibili a prima vista ma perfettamente coese, le immagini prendono a modello la pittura di Caravaggio, artista che come nessuno mai ha espresso lo spirito nel corpo comunicando non concetti, ma immagini che ci fanno sentire come l’odore di tutte le cose. Ed è il tentativo perfettamente riuscito di L’infanzia di Hans.»