Valore di legge
Laura Buffoni
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«L’investigazione del testo, che pone il «valore di legge» ma che disorienta il diritto accostando al valore la «forza di legge», passa dalla sua scomposizione, dall’interrogazione delle lettere che sono depositate e custodite nei suoi anfratti, negli interstizi. Bisogna, cioè, seguire tanto l’esplicito, la superficie, quanto le tracce disseminate, talvolta nascoste, senza dimenticare che la superficie è tale per il profondo. La ricerca muove da un’opzione ermeneutica. Ogni ricerca presuppone un’ipotesi preliminare, che l’inchiesta abbia già una direzione. In principio era il Verbo e il Verbo si fece carne, ma in un senso peculiare. Nella Seconda Lettera ai Corinzi, Paolo di Tarso disse che «la lettera uccide, lo spirito dà vita», opponendo la Legge cristiana, la buona novella, l’evangelo, la parola orale portata «sulle tavole di carne dei […] cuori», alla Legge ebraica, antica, immobile, rigida, scritta «su tavole di pietra». Altrove, però, nella Lettera ai Romani, precisò: «Togliamo dunque ogni valore alla legge mediante la fede? Nient’affatto, anzi confermiamo la legge», ove la legge, a cui il valore è qui già legato da una relazione di predicazione, è la lettera giudaica e la fede è lo spirito vivente della rivelazione cristiana. Ecco che il «valore di legge» è la secolarizzazione, più o meno consapevole, di un tema messianico. E, muovendo dalla prospettiva teologica in cui la Legge “significa”, si azzarda che «la lettera uccide chi la ignora». Contro lo spettro paolino, o meglio prima del paolinismo e poi dell’agostinismo, dell’ordine nuovo dello spirito contro la antica, morta, silente, lettera, questa lettura della Legge tenta di farsi carico del peso del testo, di “valorizzarlo” e di non ridurlo a figura, a immagine di altro, ad anagogia o ad allegoria con quel tanto di nichilismo che questa porta con sé, ove la lettera assume valore ancillare. La lettera della Legge è dura, nel senso che è, teologicamente, «scrittura su tavola» ed è, nel Secolo, scrittura incisa su carta. Ha una sua fissità, seppure alterabile. La sua normatività è tutt’uno con la sua inscalfibilità, con la sua resistenza e, dunque, con la sua positività. Ma – per restare dentro l’ordine discorsivo dell’interpretazione della Scrittura – non si avanza una proposta interpretativa masoretica, che venera superstiziosamente la lettera della Scrittura originaria e men che meno il pensiero e la voce di chi la creò e rivelò. Tutto al contrario. Per dirla nel discorso dell’interpretazione delle leggi e, tra esse, della prima legge, la Costituzione, implica il testualismo, ma non nella versione soggettivistica dell’original intent, perché i testi scritti, che sono “cose”, vivono di vita propria, separata dal loro autore (o “firmatario”) e dai lettori, potenzialmente infiniti, e producono sensi e conseguenze inintenzionali (...)»