Montemarcello è un piccolo borgo posato sopra un promontorio, incastrato tra Liguria e Toscana, affacciato sul mare. Lì vivono Fabrizio ed Enrico, amici fraterni, cresciuti insieme nell’incanto della natura che li circonda, accomunati dall’attitudine alla sensibilità. Enrico sa, fin da bambino, che diventerà un artista mentre Fabrizio, quasi per caso e a seguito di un episodio familiare – di quelli che deviano il corso delle cose –, si immerge prima nella lettura e poi nella scrittura. Cresce così in lui la consapevolezza di voler diventare uno scrittore. Nel suo percorso di formazione scopre la grande letteratura fatta di ombre venerate e distanti, come quella di Vincenzo De Petri, il famoso autore che trascorre le sue estati in paese, e si imbatte nella figura di Ines, una donna anticonformista, giornalista e critica letteraria, che si offre di aiutarlo a trovare un editore per il suo romanzo. Le ambizioni di Enrico, sospinte dalla sua intraprendenza e capacità di ignorare gli sgambetti della vita, paiono concretizzarsi, mentre i sogni di Fabrizio, più introverso e poco incline a muoversi dal paese, si frantumano nella complessità del mondo editoriale. Una storia di amicizia e di crescita, sullo sfondo di un paesaggio placido e incontaminato.
Proposto da Claudio Strinati al Premio Strega 2025 con la seguente motivazione:
«Il libro di Martini è un piccolo poemetto, sia pur in prosa, sul velleitarismo quale latente dimensione sottesa al carattere e al comportamento conseguente di molti di noi, di certo ispezionabile tramite la decrittazione psicanalitica e generatore, a certe condizioni, di possibili forme d’ arte compiute nelle diverse tecniche, a condizione di saperne dare rappresentazione, sia figurativa, sia letteraria, per non addentrarci qui (Martini ne fa comunque cenno nel libro) su innumerevoli altre modalità di rappresentazione, dalla musica, al cinema, al teatro. La velleità è infatti, nel bel testo di Martini, quel fragile discrimine tra l’assoluta impossibilità e, paradossalmente, la piena possibilità di arrivare a una forma espressiva che annulli il rovello esistenziale destinato alla sterilità e marchi invece il presupposto dell’opera compiuta. Tutta la storia raccontata da Martini si dipana intorno a questo dilemma che, ovviamente lungi dall’essere sciolto, è ribadito nel finale che inevitabilmente torna al punto di partenza come a volere dire che in sostanza non è accaduto nulla di quel che pur viene narrato. Il libro di Martini è una sorta di racconto lungo come se ne sono scritti nella prima stagione romantica ancorché possa anche essere letto quale romanzo di formazione “al contrario”, perché si parla sostanzialmente di illusioni e proprio nell’ ottica romantica recuperata nel nostro tempo per cui l’illusione che pervade tutti i personaggi è piuttosto la disillusione, esposta dal narratore in modo referenziale senza indulgere nel sentimentalismo, totalmente estraneo al suo orizzonte creativo. Qui subentra la forte componente autoironica che è, in verità, a fondamento del libro, componente che è dell’autore, ovviamente, ma che l’autore pretende dal suo lettore implicitamente invitato a non prendere troppo sul serio le vicende narrate e a non prendersi troppo sul serio nel momento della formulazione del giudizio critico sull’ opera. Come se, appunto, riascoltassimo durante la lettura di Martini le ballate di tutti i grandi disillusi del nostro tempo che si chiamino Fabrizio de André o Bob Dylan, i cui atteggiamenti sembra quasi di vedere in controluce nelle apparentemente fin troppo lineari pagine del libro di Martini, a mio avviso meritevole di seria attenzione e ammirazione.»