Partiamo dall’individuare l’etimologia della parola ossimoro, che deriva dal greco oksýmōron, termine formato dall’unione di oksýs = acuto, perspicace e mōrós = sciocco, stupido. Già dall’etimologia si capisce la natura stessa di questa figura retorica, che nasce dal contrasto tra due opposti accostati tra loro.
Citando la perfetta spiegazione che ne dà un gigante come Jorge Luis Borges:
“Nella figura retorica chiamata ossimoro, si applica ad una parola un aggettivo che sembra contraddirla; così gli gnostici parlavano di una luce oscura; gli alchimisti di un sole nero”.
Ovvero, si dice una parola e subito la si contraddice con il suo opposto, creando un evidente stridore di significato, che sorprende il lettore grazie alla corrispondenza illogica dei due termini.
Tutti avrete sentito espressioni come lucida follia, silenzio assordante, realtà virtuale, dolce amarezza… Questi sono tutti ossimori, che dietro un apparente non-sense celano un significato profondo che ottiene l’effetto desiderato.
Per altro, è sorprendente rendersi conto dell’uso quotidiano che facciamo di queste espressioni, parte del nostro linguaggio parlato oltre che effetto stilistico di scrittori e poeti.
Da non confondere con un’altra figura di senso che gioca sulla contrapposizione, ovvero l’antitesi. Anch’essa, infatti, accosta due termini o frasi di significato opposto, ma necessita che essi siano disposti in modo simmetrico, quindi ci sia una corrispondenza nei costrutti. Un esempio di antitesi è "…Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi …"
(G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo)